Ogni città italiana medio-piccola entra nella modernità attraverso la fabbrica.
E con la modernità cambia la forma della città.
I grandi opifici industriali coprono superfici talvolta equivalenti o superiori ai centri storici, che fino a qualche decennio prima erano racchiusi dalle mura cittadine. E mentre crollano le mura daziarie vengono eretti i muri di cinta delle fabbriche.
La città, con la fabbrica, accresce le sue dimensioni e trasforma le sue relazioni economiche e sociali.
Cambia il rapporto tra produzione e territorio. Se prima della modernità il rapporto economico principale era prioritariamente a scala locale, in una inesauribile complementarietà tra città e campagna, nel tempo nuovo della fabbrica le relazioni tra territorio e produzione cambiano scala: scoprono la dimensione nazionale.
Cambia l’identità delle città.
Interi quartieri, in alcuni casi intere città, diventano succursali urbane della fabbrica.
Le città dell’acciaio: Napoli, con Bagnoli, Genova e Taranto, e l’Italsider, Sesto San Giovanni e le Acciaierie Falk, Terni e le acciaierie Thyssen Krupp.
Le città dei cantieri navali: Monfalcone e Castellamare di Stabia con i cantieri navali di Finmeccanica;
Le città della chimica: Ravenna, Marghera, August e i poli della chimica,
La città del cioccolato: Alba e la Ferrero.
Le città della meccanica: Reggio Emilia, con il quartiere Santa Croce e le Officine Meccaniche Reggiane.
In alcuni casi fabbrica e quartiere si sovrappongono nel toponimo: Mirafiori a Torino, Stanic a Bari.
Fino alla materializzazione del sogno della modernità: la città-fabbrica di fondazione.
Zingonia, Metanopoli, Rosignano Solvay: la fabbrica è città.